Sono tanti, tantissimi e, sicuramente, in aumento. In realtà non ci sono stime certe sul numero degli adolescenti italiani in ritiro sociale e pochi sarebbero ancora gli studi ufficiali, ma si presume che siano circa 100 mila, soprattutto tra i 16 e i 20 anni.
Sono gli “hikikomori” (in Italia “ritirati sociali”), un termine giapponese coniato proprio nel Paese in cui questa patologia ha cominciato a diffondersi anni fa e che oggi conta 500 mila ragazzi che ne soffrono.
Esistono ma non si vedono, vivono in un mondo parallelo, rigorosamente virtuale. E’ una generazione cresciuta nella rete, iperconnessa, incapace di fare a meno di internet, social, play-station e tutto ciò che consente loro di trovare gratificazione e attenzione fuori dal mondo reale.
Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi confronto con il mondo esterno. Si rifugiano nella rete nei social network, non di rado con profili fittizi.
Per molti studiosi del fenomeno è un rifugio dove trovare riparo in occasione di gravi crisi evolutive. Resta difficile comprendere la ragione per cui adolescenti che di fatto sono in salute, spesso con un livello intellettivo molto alto e ottimi risultati scolastici e soprattutto una profonda sensibilità, si isolino. Senso di inadeguatezza, bassa autostima, panico possono essere delle risposte, non sempre sufficienti.
Vivono decisamente male le pressioni che arrivano dal mondo esterno, dove prevalgono modelli di società ipercompetitivi, basati sul successo personale, sull’immagine. Parametri per loro assolutamente indigesti che li spingono a cercare l’invisibilità sociale.
L’autoesclusione dalla realtà e l’inserimento graduale in una realtà 4.0 coincide quasi per tutti gli adolescenti con il passaggio dalle scuole medie alle superiori. E’ il momento in cui professori e compagni possono avere una funzione significativa, in accordo e collaborazione con la famiglia, che altrimenti si sente persa, abbandonata, incapace di affrontare un problema che diventa rapidamente abnorme, impossibile da decifrare e risolvere.
Scuola, terapeuti e genitori devono quindi lavorare insieme e porsi il problema di come riaccendere il piacere del confronto, delle relazioni. Scivolare nella rete, affidarsi ad un mondo apparentemente sicuro e senza rischi è una deriva da evitare in tutti i modi.